Danno la vista a chi l’ha persa, permettono alle persone con tumori rari di vivere in salute a lungo e consentono a chi è nato con gravi malattie rare di avere una vita simile a quella degli individui sani. Anche se hanno nomi differenti, fanno tutti parte della stessa famiglia: quella dei farmaci orfani. In Europa, le designazioni “orfane” sono state 1.163 e le molecole che hanno ottenuto dall’Ema lo stato di “orfano” sono 93. In altre parole, solo l’8% hanno avuto l’Autorizzazione all’immissione in commercio.

«In questo settore, l’Italia è molto attiva» ha detto Ilaria Ciancaleoni, direttore di Osservatorio malattie rare. «Il 20 % della sperimentazione nel nostro Paese è fatta con farmaci orfani. I dati Aifa del 2014 parlano di 117 trial clinici aperti, l’80% circa dei quali è arrivata alla fase II o alla fase III. Se su 93 farmaci il 78% è a disposizione dei malati dopo aver passato il lungo percorso di prezzo e rimborso con Aifa e l’inserimento nei prontuari regionali, c’è un 22% che sta ancora aspettando però la fine di questo iter».

«Probabilmente, quello che manca è una cultura intorno a questo tema e uno sviluppo concreto di collaborazione tra accademia, industria, fondazioni di ricerca e associazioni di pazienti» ha spiegato Emilio Clementi, del Dipartimento di scienze biomediche e cliniche Luigi Sacco e direttore dell’UO di farmacologia clinica dell’azienda ospedaliera Luigi Sacco di Milano. «Qualcosa è stato fatto, come l’accordo tra Telethon, Irccs San Raffaele e GSK, ma non è sufficiente. Bisogna stimolare questo tipo di collaborazioni perché possono facilitare la ricerca di bersagli terapeuticamente validi, accelerare e affinare sia il disegno di farmaci innovativi sia il processo clinico necessario al loro utilizzo sui pazienti».

La proposta è di ricercare una più chiara gestione a livello europeo, che si potrebbe raggiungere con una definizione degli ambiti presenti e futuri dei vari approcci, impedendo la commistione e la compresenza di approcci differenti. In questo senso il Decreto Lorenzin sulle terapie avanzate si pone come un importante contributo alla chiarezza, che potrebbe essere divulgato come best practice anche in altri Paesi.

«Sul piano dell’accesso alle terapie in fase di sperimentazione, se l’arruolamento di un paziente negli studi clinici in corso non è possibile, sarebbe necessaria una valutazione rischio/beneficio per poterne valutare l’accesso al trattamento» ha aggiunto Marcello Allegretti, direttore scientifico di Dompè. «In questi casi la richiesta di trattamento può essere ricondotta al named patient basis, secondo cui i medici possono avere farmaci per i loro pazienti richiedendoli direttamente all’Azienda produttrice per usarli sotto la propria responsabilità».

(Cesare Betti)